di Simone Bandini

 

“Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte”

La malattia mortale (1849), Søren Kierkegaard

 

È al centro di una notte come tante altre che si consumano le nozze demoniache di materialismo e capitalismo. Nell’indifferenza degli astri che dispensano per sé, senza mai dissiparla o sprecarla, la magia creativa e mitopoietica della propria rivoluzione.

 

 

Sì, certamente ce ne siamo accorti. Ci siamo accorti di come l’esistenza terrena si sia ‘ridotta’, come risucchiata da più bocche: la meccanica totalizzante della professione o del ‘guadagnarsi la pagnotta’, un ‘vissuto’ familiare che è la versione buffa e caricaturale dell’antico focolare domestico (dove ci sono solo esigenze, cose da fare, laddove è dimenticato l’essere per essere, dove l’appartenenza tramonta nel provvisorio e nella contingenza), una burocrazia di stato che, ai tempi della nuova pandemia globale, avvolge nelle sue spire e codifica ogni spazio di azione individuale e collettivo, financo la possibilità stessa di autodeterminarsi.

Nel tempo libero qualche amicizia o flirt virtuale (talvolta reale!), una partita a padel con gli amici, forse una seratona sul divano pizza e birra (con filmone apocalittico o distopico) o, per i più alternativi le discussioni impegnate sul pensiero fluido, il mai sopito pericolo fascista, le ultime dal web sulla dittatura sanitaria, senza dimenticare il nuovo complotto mondiale ad opera di tecnocrati umanoidi.

Questa lunga notte della libertà e dell’identità è la tenebra incontrastata del materialismo: la palude dell’indistinto dove arrancano a bracciate, rachitiche nelle acque mefitiche, le sue Erinni – gettando le braccia al centralismo, allo statalismo più bieco e rassegnato – dove la vita stessa vale uno pneuma. Ma è un ‘soffio’ tutt’altro che eroico.

Questo movimento informe, assolutamente rettilineo e modernissimo, ci fa gridare come antichi malinconici semidei: ‘Il n’est jamais plus tard que minuit!’.

Non è mai più tardi di mezzanotte: il divino afflato che agita l’animo elevandolo – e che elevandosi domina lo spirito (e pure la carne!) – si è perduto nell’esaltazione da accumulo – di beni e valori senza direzione né origine, da ultimo senza alcun discernimento né consistenza assiologica.

La vita è appunto ‘ridotta’ ad una metastasi poiché, di per sé, ha valore esclusivamente nella sua operatività, nella sua natura ‘maligna’, mortale e caduca. Nella sua radice materiale. Per la mera causalità dei suoi effetti, l’esistenza è ciò che ci accade, non più ciò che siamo.

La volontà si fonde con la necessità, piuttosto che la libertà.

 

Ascolto consigliato: “Glycerine”, Bush