di Simone Bandini

 

“L’armonia e la disarmonia si combinano, ciò che concorda e ciò che discorda si uniscono, e se Conflitto non è l’unico padre di tutte le cose, poiché è inseparabile da Unione, Eros e Thanatos sono nello stesso tempo in complementarità e in antagonismo permanenti”.

Eraclito di Efeso (550 – 480 a. C.)

 

“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”.

Carl von Clausewitz, Vom Kriege (post. 1832-34)

 

 

Partiamo dalla romantica seppur operativa considerazione del generale prussiano Von Clausewitz per comprendere che, nei valori portanti della cultura occidentale – dal pensiero presocratico alla Realpolitik germanica – la pace non è mai stata un valore in sé – o almeno non si è mai pensato che essa potesse prescindere dal concetto di giustizia.

Questa invenzione assolutamente post-moderna della ‘pace per la pace’ si origina dalla nobile teorizzazione illuminista dell’abate Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre che ebbe un importante effetto su pensatori come Jean-Jacques Rousseau, Voltaire e Immanuel Kant. Nasceva timidamente la pace come ‘sentimento’, sganciata da ogni valutazione analitica e franca della realtà, in una sorta di lifting morale e culturale che ritenne l’uomo capace di cancellare la parte, diciamo così, ‘oscura’ della sua natura. Nel particolare si prese a pensare che la grandezza di un sovrano e, dunque anche, talvolta, la giustificazione della guerra, non derivasse dalla vanagloria derivante dall’espansionismo militare, quanto dallo sviluppo della ricchezza del proprio popolo, da cui deriva il prestigio, la magnificenza e la ricchezza stessa del sovrano. Si faceva largo una sorta di teodicea assoluta del denaro che nei secoli a venire si sarebbe raffinata in ideologie materialiste come il comunismo che bandirono lo spirito, e la sua complessità, dalla storia dell’uomo.

Il pacifismo dei contemporanei, vieppiù, ha perso ogni fondamento razionale, sganciandosi totalmente dalla realtà politica, vantando presunti fondamenti etici, nella convinzione che la guerra sia moralmente sbagliata e che questo “sentimento dell’offendere e del prevaricare e financo dell’uccidere” non possa essere mai giustificato, poiché estraneo all’essenza vera degli uomini e, nei fatti, una contronatura materiale e morale.

Nel Novecento, dopo i grandi conflitti mondiali, il pacifismo è dunque traslato nell’utopismo transeunte della beat generation fino alla recente, bimillenaria fusione con un Cristianesimo rinnovato, del tutto intramondano, che ha smarrito il suo rapporto col sacro e si mostra indifferente ai feticci del pensiero ‘fluido’, ‘gender’ – una navigazione a vista nel marasma della ‘cancel culture’.

Non possiamo qui che ribadire la convinzione che la pace sia un bene desiderabile (ma non assoluto), e che debba procedere dal concetto di giustizia. E che se davvero si vuole conquistare la pace – si debba farlo con una complessa filosofia dello spirito, piuttosto che con una mera operazione di cancellazione della sua controparte. Peraltro, inutile.

 

Ascolto consigliato: “Try better next time”, Placebo