A Cura della Redazione

Foto di Gianluca Benedetti (Neropositivo)

 

La mostra “La strada bianca: Ceramiche da Dehua a Gubbio”, inaugurata il 14 novembre presso le sale espositive della Fondazione Perugia alle Logge dei Tiratori di Gubbio, rappresenta un patto d’amicizia tra il Comune di Gubbio e la città cinese di Dehua. Curata da Cesare Coppari ed Ettore Sannipoli, l’esposizione riunisce tredici ceramisti eugubini insieme ad artisti cinesi, offrendo un confronto tra le porcellane di Dehua e le maioliche locali. Il tema centrale della mostra è il colore bianco. L’esposizione sarà aperta al pubblico fino al 31 gennaio a Gubbio, per poi trasferirsi nei cinque comuni umbri lungo la Strada della Ceramica e concludendo infine a Faenza.

 

Il testo critico dei curatori della mostra, Cesare Coppari e Ettore A. Sannipoli, ci racconta della porcellana e della maiolica e le loro intersezioni storiche.

 

 

Il bianco è il colore della porcellana, così come il kao-lin rappresenta le ossa e il pe-tun-tse la carne di questo diafano impasto di terra e rocce, cotto ad alta temperatura. Lucido e liscio al tatto al pari della conchiglia della ciprea che, al tempo di Marco Polo, i veneziani chiamavano appunto “porcellana”. Nome che continua a riecheggiare nelle lingue occidentali per indicare la ceramica cinese prodotta dalle dinastie Tang, Song, Ming e Qing, il cui bianco perfettamente uniforme e privo di impurità si impose come modello estetico da imitare anche in Europa, dando il via a un secolare processo di ricerca solo apparentemente conclusosi agli inizi del XVIII secolo, quando i tedeschi Ehrenfried W. Tschirnhaus e Johann F. Böttger scoprirono la composizione del prezioso materiale ceramico.

Una sfida tecnica – L’accoglimento e la diffusione della porcellana nella ceramica europea attraverso manifatture come quella di Meissen in Germania e poi di altre come la Real Fabbrica di Capodimonte in Italia ha contribuito ad arricchire un rapporto profondo, antico e ancora vivo, carico di significati tecnici, estetici e simbolici: quello tra ceramica e colore bianco. Già nella maiolica, la terracotta coperta di smalto stannifero d’origine islamica, diffusasi nella penisola italica soprattutto a partire dal XIII secolo, il colore bianco costituiva la base neutra o il fondo capace di esaltare le tinte vivaci dei disegni e delle decorazioni che vi venivano applicati. Colore bianco divenuto poi dominante nelle terraglie circolate nel continente europeo dal XVIII secolo, grazie a opifici come quello di Josiah Wedgwood, l’imprenditore della ceramica inglese che giunse a depredare gli indiani Cherokee delle loro terre ricche di caolino pur di soddisfare l’infatuazione della borghesia britannica per il candore tipico della porcellana, dopo che le Arti Manifatturiere e del Commercio proposero di vietarne l’importazione in quanto bene di lusso.

Da qui la necessità di replicare l’artigianato cinese, ma anche le sue ricette. E non solo le ricette riguardanti la composizione della porcellana. Si trattava infatti di dosare le alte temperature necessarie ad ottenere la lucentezza e brillantezza di un colore la cui perfetta uniformità e purezza si sapeva da tempo dipendere dai difetti dell’argilla o dagli errori nella cottura, capaci di far virare il bianco verso toni grigiastri, crema o giallognoli, così lontani dall’avorio, talora rosato, traslucido, madreperlato, metallico, dalle venature paglierine simili al piumaggio dell’oca ma anche azzurrato del cosiddetto blanc de Chine, primo responsabile della propagazione della “malattia della porcellana” presso il pubblico europeo e non solo.

Un bianco che sappiamo già associato al lusso, ma che assume via via significati diversi a seconda dei contesti culturali e delle circostanze storiche.

 

 

I significati del bianco – Edmund de Waal ricorda che “in Cina il bianco è il colore del lutto”, riferendosi all’imperatore Yongle e alla pagoda di porcellana di Nanchino, da lui fatta costruire: “Che cos’è il bianco? È il colore del lutto, perché spegne in sé tutti i colori. Il lutto è anche una rifrazione senza fine, che ti suddivide in pezzi, in frammenti”. Da qui inizia un viaggio sulla strada bianca della porcellana compiuto dal ceramista e critico inglese, che commentando un boccale di William Cookworthy, quacchero inglese del XVIII secolo, dichiara: “Anche la sua bianchezza è una bianchezza speciale. Questo boccale di porcellana, così incerto nella fattura, è un vaso angelico”. Per Emanuel Swedenborg, infatti, il quale esercitò un forte influsso su Cookworthy, gli angeli presso il sepolcro di Cristo hanno un “vestito bianco come la neve” e “coloro che non hanno contaminato le loro vesti cammineranno Meco in vestimenti bianchi, perciocché ne sono degni”. “Il bianco è la verità; è la nuvola lucente all’orizzonte che annuncia l’arrivo del Signore. Il bianco è la sapienza”. I Cherokee, nativi del Nord America, usavano invece per i calumet il caolino bianco “non soltanto perché è una terra fine che brucia in maniera pulita, ma perché il bianco è un colore rituale. Simboleggia la pace”. E a San Pietroburgo, nella Fabbrica di Porcellana di Stato, la bianchezza della porcellana diventa “una rivoluzione”. Anche per Kazimir Malevič: “Navigate! Il bianco abisso libero, l’infinito, sono davanti a noi”. Infatti, “mentre altri artisti rivoluzionari stanno realizzando oggetti a partire da immagini, Malevič realizza immagini a partire da oggetti. Volete un manifesto? Eccovelo. Prendi l’idea di un oggetto di uso comune e ci dipingi sopra, lo imbianchi, e così ti ritrovi con una teiera inutilizzabile. Una semplice tazza come porcellana rivoluzionaria e combattente”. Quanto alle imposizioni di Heinrich Himmler sulla necessità di ammantare di bianco o di biscotto bianco le statuette di Allach, esse furono raccolte dal primo catalogo del campo di concentramento, dove si dice che “La porcellana bianca è l’incarnazione dell’anima tedesca”. Ciò in ossequio al rigore del grande critico tedesco Winckelmann: ‘Il color bianco, essendo quello che riflette più raggi, è il più sensibile all’occhio, e perciò la candidezza accresce la beltà d’un ben formato corpo’”. In Cina, quella della “porcellana ufficiale” che sostanzia i busti di Mao diviene “una bianchezza pragmatica, che taglia via la paura di sbagliare mentre crei queste icone. Una bianchezza che faceva risplendere i Mao della stessa trascendenza di una qualsiasi dea della misericordia, di qualsiasi Guanyin”. E si potrebbe continuare a seguire la via tracciata da de Waal fino ai nostri giorni, per scoprire che il bianco in ceramica è più di un colore: è materia, luce, vuoto pieno di significato. Esso ha un ruolo centrale tanto nella tecnica quanto nell’espressione artistica. È il punto di partenza e, talvolta di arrivo. Questo sia che venga considerato simbolo di purezza e verità, e quindi positivamente in Occidente, dove però assume caratteri anche negativi quando è associato all’esperienza del presentimento della morte, sia che venga legato ai concetti della vecchiaia, dell’autunno, dell’Oriente, dell’infelicità e del lutto come in Cina, dove però è visto anche come simbolo della verginità, della purezza, del silenzio e della contemplazione.

 

 

Bianco è il colore di un incontro – Quanto detto basta a ricordare che le vicende storiche dell’arte della terra e del fuoco così come noi europei le conosciamo devono molto al rapporto con l’Oriente. Non solo da quell’Oriente che solo oggi possiamo dire vicino, da cui ci vennero i vasi e le anfore greche transitate per un “mare color del vino”, o da quell’Oriente medio grazie al quale conoscemmo il sortilegio di trattenere nella terra il fuoco dell’infinita sabbia attraversata dai saraceni. Ma anche dall’Oriente che continuiamo a ritenere lontano, il quale non ha finito di stupirci col candore delle sue porcellane, che oggi ci giungono su un aereo la cui scia bianca ci riporta al bianco delle vie percorse dai mercanti veneziani e cinesi della seta, che idealmente si riaprono per favorire incontri umani felicemente produttivi e creativi. La strada bianca è il titolo della ricerca di de Waal sopracitata. Lo facciamo nostro per rappresentare il cammino, l’itinerario, la direzione di un percorso che si intende seguire o da cui si proviene, la rotta di una navigazione, insomma il viaggio. Per simboleggiare la relazione tra due culture lontane, tra due tradizioni ceramiche diverse come quelle di Dehua nel Fujian, con il suo bianco di Cina, e di Gubbio in Umbria, con la sua maiolica a lustro. E allo stesso tempo potrebbe alludere alle auspicabili tappe successive per una mostra che intende seguire la Strada della Ceramica in Umbria. Presentare ceramiche bianche, da parte dei maestri eugubini, ha perciò un valore di accoglienza, rappresenta un tributo, un omaggio nei confronti dei colleghi cinesi, in segno di amicizia e di ospitalità. Manufatti di bianco vestiti che comunque recano chiare le tracce della produzione autoctona: nei materiali e nelle tecniche, nelle fogge, nei decori anche policromi, talvolta nell’opposizione rappresentata dal nero dei buccheri al candore che “spegne in sé tutti i colori”. Già correlare la bianca porcellana e il nero bucchero significherebbe analizzare somiglianze e differenze tra due tipi di ceramica molto diversi per origine, tecnica, funzione e contesto storico, ma che possono comunque essere messi a confronto in modo interessante. Si tratta infatti di due apici della ceramica, ognuno nel proprio contesto: la prima sofisticata, globale e simbolo di lusso; il secondo sobrio, arcaico, ma carico di valore culturale. Confrontarli tra loro, e allo stesso tempo con altri materiali quali la maiolica o la terraglia, ci aiuta a riflettere su come la ceramica sia sempre stata sia arte che tecnologia, necessariamente intrecciata a valori culturali, religiosi e sociali. Del resto, per tornare al colore sulla scia di Michel Pastoureau (2022), che ripercorre i differenti modi di utilizzare, percepire e significare il colore bianco nella società europea, la dicotomia tra il bianco e il nero diviene dominante solo in età moderna, soprattutto con l’affermarsi della stampa, la diffusione della tipografia e lo svilupparsi della scienza moderna. Quando Newton scompone la luce bianca nello spettro, cambia il modo di vedere il bianco. Esso non è più solo un colore simbolico, ma entra in una nuova prospettiva, anche scientifica, che ne fa un “non-colore” insieme al nero. Tuttavia, nell’Occidente antico e medievale il bianco era considerato un vero e proprio colore al pari del nero, venendo a formare una triade di opposizioni che comprendeva anche il rosso. Nero e rosso la cui convivenza sappiamo aver fatto grande la ceramica greca antica, capace di avvicinare l’oriente greco all’occidente italico, quando gli Etruschi evolsero i modelli ellenici in quel bucchero che l’eugubino Polidoro Benveduti fece umbro a partire dal 1928. Un’opera al nero (nigredo) che non ha però spento il lustro e le metalliche iridescenze dell’opera alchemica compiuta da Mastro Giorgio Andreoli (rubedo), per la cui argilla incorruttibile la tradizione ceramica di Gubbio continua a rosseggiare nel mondo. Anzi, ad un secolo di distanza dal suo compimento, quest’opera al nero trova una nuova fase di rinascita e di purificazione grazie all’opera al bianco (albedo) dei maestri di Dehua, che ci impegna in uno sforzo creativo a partire dalla consapevolezza che tra il bianco che li scompone e libera e il nero che li assorbe e trattiene stanno tutti i colori che ci è dato percepire.

 

 

Info: La Strada Bianca: Ceramiche da Dehua a Gubbio, 14 novembre 2025 – 31 gennaio 2026 / Fondazione Perugia alle Logge dei Tiratori, Piazza Quaranta Martiri – Gubbio / lastradadellaceramica@gmail.com

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *